(di Paolo Petroni)
''La Befana vien di notte / con le
scarpe tutte rotte / con le toppe alla sottana: / Viva, viva la
Befana!'' quella vecchia che vola sopra i tetti a cavallo di una
scopa e poi, concludendo, dodici giorni dopo Natale, il ciclo
natalizio, scende nelle case attraverso le cappe dei camini, che
simbolicamente raffigurano un punto di comunicazione tra la
terra e il cielo, per distribuire doni o carbone, quasi a far i
conti con l'anno passato, come a trarne una morale. E il suo
arrivo coincide con l'arrivo dall'Oriente dei Re Magi con i loro
doni alla stalla di Gerusalemme in cui è nato Gesù.
Due storie che sono legate. Il nome Befana è del resto
derivazione della parola greca Epifania, ovvero apparizione,
manifestazione, che nelle sacre scritture indica proprio la
rivelazione della doppia natura, umana e divina, del Cristo e fa
di quella notte una notte magica. E' ''La dodicesima notte'',
come intitola una sua commedia piena di sortilegi Shakespeare,
che a Roma era la più importante, quella davvero popolare e di
tradizione, quella dei doni e dello scatenamento liberatorio,
degli incontri imprevisti, in tempi in cui l'abete dal nord
ancora non era una moda e a Babbo Natale al di là dell'oceano
nessuno ci aveva ancora pensato.
Una volta c'erano le trombette di latta e di cartone,
stridule, petulanti e laceranti, che davano un accento
orgiastico e un'atmosfera allucinata al gran mercato della notte
della Befana, come annotava Silvio d'Amico in apertura del suo
romanzo-memoria ''Le finestre di Piazza Navona'', quelle
attraverso le quali i ragazzi che lì abitavano seguivano a
inizio Novecento ciò che accadeva tra banchetti e fontane della
piazza storicamente preposta a quella magica festa. Poi vennero
la gomma e la plastica e invece delle trombette ci fu l'era dei
manganelli, più violenta e rissosa, più fisica nel prender di
mira e ''inseguire popolane o signore, fanciulle o spose,
matrone o vecchiette, col risultato di stordirle, finché non
chiedevano pietà; quando non succedevano battibecchi, o
peggio'', come scriveva sempre D'Amico, giornalista e critico
teatrale, fondatore dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica
che porta il suo nome.
L'origine della Befana va probabilmente connessa a tradizioni
agrarie pagane relative all'anno trascorso, ormai pronto per
rinascere come anno nuovo. Anticamente nella dodicesima notte
dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la
rinascita della natura, e gli antichi romani credevano che in
queste dodici notti, figure femminili volassero sui campi appena
seminati per propiziare i raccolti futuri, in collegamento con
la dea Strenia, simbolo appunto del nuovo anno, portatrice di
doni augurali e oggetti per i bambini durante le festività dei
Saturnalia che si svolgevano a fine dicembre. E' da lei che
deriva il nostro termine strenna e l'abitudine allo scambio di
doni.
Festa oramai generale, ma con appunto un'identità storica
romana (era il giorno dei doni, non il Natale ancora non
commercializzato, e in parte resiste, come Santa Lucia lo era
nei paesi nordici o i Morti lo erano in Sicilia). Nel Lazio a
dicembre si cantava: ''La Befana, in questo mese / è ppartita
dal paese, / s'è ccomprata 'na bbella chioma, / s'è n'è annata
verso Roma''. Il 5 e il 6 sera tutti quindi si andava e si va a
Piazza Navona, ma prima, prima che i bersaglieri irrompessero a
Porta Pia, quella festa si teneva davanti a sant'Eustachio,
piazzetta poi divenuta evidentemente troppo piccola, così che
proprio nel 1870 banchi e bancarelle vennero trasferiti davanti
alla chiesa del Bernini e attorno alla fontana dei fiumi del
Borromini. Quel giorno, a un certo punto, ci si recava anche
nella vicina Sant'Andrea della Valle, la chiesa resa celebre da
Puccini con la storia di Tosca, dove nella cappella di San
Gaetano Thiene si chiudevano le celebrazioni natalizie col
cosiddetto ''Sermone delle Nazioni''.
All'insegna del detto ''L'Epifania tutte le feste porta
via'' si chiudevano allora innanzitutto tanti i banchetti con
sugheri, muschi e casette per il presepe (non c'erano certo
tutti quelli per sparare oggi purtroppo numerosi in Piazza
Navona) e poi passato il 6 gennaio anche quelli di dolci e
regalini da mettere nella calza. Certo bisognava essere stati
'bboni, come ci ricorda il Belli nel sonetto ''La strillata
della mamma'', che minaccia il figlio che non le dà ascolto
urlandogli: ''Bbasta, sciariparlamo a sta bbefana: / lo vederai
che llettera je scrivo!''. E in molti paesi italiani e europei
la tradizione prevedeva di finire bruciando le vestigia
dell'anno appena finito, l'anno vecchio rappresentato appunto da
una vecchia malmessa cui si dava fuoco in piazza, festeggiando
il passaggio al nuovo.
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